Da bambino volevo guarire i ciliegi
quando, rossi di frutti, li credevo feriti:
la salute, per me, li aveva lasciati
coi fiori di neve che avevan perduti.
Un sogno, fu un sogno, ma non durò poco;
per questo giurai che avrei fatto il dottore,
e non per un dio, ma nemmeno per gioco:
perché i ciliegi tornassero in fiore,
perché i ciliegi tornassero in fiore.
E quando dottore lo fui finalmente,
non volli tradire il bambino per l’uomo,
e vennero in tanti, e si chiamavano ‟gente”,
ciliegi malati in ogni stagione.
E i colleghi d’accordo, i colleghi contenti
nel leggermi in cuore tanta voglia d’amare,
mi spedirono il meglio dei loro clienti,
con la diagnosi in faccia e per tutti era uguale:
‟ammalato di fame, incapace a pagare”.
E allora capii, fui costretto a capire,
che fare il dottore è soltanto un mestiere,
che la scienza non puoi regalarla alla gente
se non vuoi ammalarti dell’identico male,
se non vuoi che il sistema ti pigli per fame.
E il sistema sicuro è pigliarti per fame,
nei tuoi figli, in tua moglie che ormai ti disprezza;
perciò chiusi in bottiglia quei fiori di neve,
l’etichetta diceva ‟Elisir di giovinezza”.
E un giudice, un giudice con la faccia da uomo,
mi spedì a sfogliare i tramonti in prigione;
inutile al mondo ed alle mie dita,
bollato per sempre ‟truffatore imbroglione”,
‟dottor professor truffatore imbroglione”.