Conobbi il Verga sul tardi, che avevo già passato i vent'anni con l'interesse di chi ha già ripudiato le lettere studiate sui banchi, e io che mi facevo di prosa francese, per quanto palese non mi ero accorto che il migliore lo avevamo già in paese. Ed era una prosa per meditare, sì sì: roba da meritare, come i vestiti di fustagno nelle Novelle Rusticane, come lo stormire del castagno, il suono delle colombaie, come la vita in ogni stagno, là fra le pievi solitarie e la stampa bianca mostrava e tracciava fra le file di tigli e la strada la distesa dai poderi screziata davanti all'aria screpolata là dove dormon le galline in cortile con la testa sotto un'ala, dove il cane abbaia al confine all'alba che si staglia sulla ghiaia. M'incamminai con gli occhi pronti fra le righe delle pagine, fra le ampie gamme d'onde, fra le arie di ogni colle, fra le faglie tra le zolle, fra le zolle in ogni valle, fra le immagini sorte agli argini là dove osano le allodole. Ed era la gioia dei particolari che mi portava all'effetto complesso di un mondo ma invero, sì, il riflesso di un cosmo perfetto dove muove l'eco del mattino fra le travi sotto il tetto e il fazzoletto a capolino dalla scarsella del farsetto. E a capo chino sulla carta sentivo il sole alzarsi e incombere e io che seguivo fra le righe spighe infine farsi onde, io che seguivo fra le vigne le linee dritte di ogni vomere e se alzavo gli occhi per capire, erano ancora sporchi di polvere.
Sono stato a Recanati: ho cercato quei paesaggi, sono stato lì a guardarli per capire, al di là delle notizie, cosa fosse del poeta e cosa fosse proprio delle critiche. E ti dirò, non mi è servito troppo tempo per veder la tua natura come esempio: una siepe che nasconde rivelando un cosmo ombroso che è oltre la realtà; escluso il guardo apre un altro occhio che vede il fuori e il dentro nello stesso momento e questo mi era parso - ma non chiaro - già in seconda media nonostante già a quel tempo la tua poesia fosse coperta e da una fitta coltre di morale su quanto tu fossi un depresso e da quello schermo con cui i compagni di classe ti distraggono da un certo incanto oscuro con cui la tua professoressa ti dice di studiarla; ma quella poesia non le interessa nella sua interezza e sai: nemmeno ripetendo la lezione, nemmeno se me lo spiegavano altre persone con dovizia nel particolare, nemmeno leggendo lo scritto a chiare lettere sul manuale, in nessun caso e mai nella mia vita ho creduto che tu fossi un pessimista. Per leggere la tua poesia devo saltare più di un secolo di critica, devo guardare la tua statua in cui sei rappresentato triste e curvo ed immaginarti come quel cespuglio coi rami come fruste che resiste ante litteram. La resistenza di un uomo solo alla natura è superiore ad ogni resistenza politica in una Natura così grande da non avere e non doverti spiegazioni: manda al pasto dai leoni la cultura antropocentrica e il suo lettore si risente perché cerca una morale in quelle che scherzosamente definisti le Operette; e il tuo lettore legge sempre più distrattamente, casca nella trappola dell'attenzione e guarda solo ciò che emerge: il lettore vede siepe se gli indichi la siepe, vede Silvia morta come ciò che tu non puoi più avere, crede che tu parli del male se descrivi il transito sentimentale nelle attese per le feste, nella quiete dopo le intemperie; ma io ti leggo non su carta dove scripta manent ferme come una natura morta, io ti leggo ovunque voglia. Io guardando una montagna e immaginando una valanga che mi travolgesse senza che io riuscissi poi a schivarla: morire senza un motivo col sorriso sulle labbra partecipando ad un evento così grande in un giorno felice, passeggiando nella neve, nella valle. Ho imparato i rudimenti dello Zen da te prima che dal Libro delle Porte; rifiutasti cattedre, non aderisti a nessuno di quei movimenti che ai tuoi tempi cominciavano a nascere. E ora che la tua vita ha fatto il suo corso, anche senza il mio scritto trovi riposo in quella morte che non è sonno, non è sorte, non è dolore, non è cose.