Quella notte ho fatto un sogno: mi trovavo dentro casa, mi affannavo alla ricerca di un oggetto, mi perdevo nella smania. Cominciavo la ricerca da un cassetto, perquisivo uno stipetto, sollevavo un foglio, un libro, un piatto. Cercavo in alto, sull'armadio, a tatto. Non mi arrendevo al fatto che il mio ordine perfetto fosse incrinato da un microscopico dettaglio, quindi scollavo profili e stipiti, spostavo i mobili, rivoltavo zaini e tracciavo dei tragitti che all'origine hanno i buchi nelle tasche dei vestiti. Investigavo i posti più improbabili, come le travi del tetto, i davanzali, i flaconi di prodotti vuoti o pieni, le pagine dei libri: qualsiasi luogo dove quell'oggetto sarebbe potuto essere stato messo. Avevo quell'atteggiamento maniacale di chi non vuole più pensarci, ma sotto sotto continua a cercare qualcosa in modo indefesso, e poi vìola la consecutio temporum.
Mi sveglio. Resto riverso diversi minuti nel letto con un occhio aperto ed anche l’altro. Una contrazione dello stomaco, un lieve peso sullo sterno. Quando faccio un sogno lo conservo, lo ripercorro appena sveglio, poi me lo segno sul quaderno: così ricordo. Quindi mi accorgo che tra le tasche, i mobili, gli stipiti, l’unico dettaglio del sogno in grado di confondermi, di inquietarmi, di contrarmi gli organi, è il non sapere cosa io stessi cercando. Mi alzo. Penso a cose pratiche, ai discorsi di persone antipatiche che mi direbbero che è solo un sogno, ignorando che è la mia testa ad averlo prodotto e che ricordarselo e capirlo aiuta a rafforzare il rapporto con l’inconscio. Rimango immerso nelle immagini: i miei gesti automatici mi consentono la colazione. Apro le ante: ingredienti e tazze, pane a fette, marmellate, uova rotte. Esco di casa, chiudo le porte. Ho delle liste di cose da fare annotate in maniera maniacale sopra lastre di carta quadrettate. Devo entrare in un negozio per comprare materiale elettrico, quindi mi dirigo, arrivo, accedo all'esercizio. Spingo la porta: mi accorgo che il sogno di ricerca non ha ancora abbandonato la mia testa. Ho un’espressione assorta, sono visibilmente turbato. Il commesso mi guarda, io cerco fra gli scaffali un articolo che mi sono commissionato. Il mio atteggiamento pensieroso, distaccato mi classifica agli occhi del negoziante come qualcuno che potrebbe aver rubato. Mi guardo attorno, mi sento osservato. Forse mi sbaglio, forse me lo sto immaginando. È un disastro. Faccio il disinvolto. Cerco di stare attento a quanto sto fermo, a quando faccio un movimento, tanto che, all'esterno, negoziante e commesso hanno la certezza che io mi sia messo in tasca qualcosa: forse un tassello, un attrezzo, mezzo metro di cavo elettrico, un tubo di silicone che renda il mio pensiero ermetico? Siamo al punto che ogni mio gesto alimenta il sentimento del sospetto ed ogni sguardo alimenta una certezza: lo spettro della completezza. Arrivo al punto di bramare la sapienza su cosa un’altra persona pensi. Se scappassi adesso dal negozio sarei un ladro in ogni caso, che io abbia ragione, o che mi sia sbagliato. Ci vuole un piano: qualcosa di contorto, articolato, che mi liberi dalle supposizioni, che distrugga i dubbi di commessi e negoziatori. Mi presento alla cassa e pago, iniziando il mio discorso: “Voi credete che io sia un ladro? Perquisitemi! Cancellate il mio reato!”. Questi mi squadrano; riluttanti, eseguono: mi spulciano, non trovano, si scusano. Allora avevo indovinato! Mi piace indovinare. Mi piace che gli altri non indovinino. Saluto pacifico i due uomini che mi salutano. Mentre esco, mentre non mi vedono, punisco la loro sfiducia rubando un articolo: un condensatore molto piccolo. Torno a casa e penso subito a dove nasconderlo: dietro un mobile? nel cassetto del tavolo? dentro uno zaino? nell'armadio? No, ci vuole un posto più subdolo, tipo sotto l’intonaco, in modo che quando passo nei pressi di quella parte di parete io sappia perfettamente perché faccio certi sogni e perché la gente nei miei confronti tiene certi comportamenti.