Avevo undici anni, a scuola odiavo quasi tutti i miei compagni: impossibile adeguarmi, non riuscivo a riprodurre le dinamiche viste nei programmi di Gianni Boncompagni. Andavo a scuola a piedi con mia sorella: non c’era nessuno ad accompagnarmi, i rapporti con gli altri erano traumi per ribellarmi. Ero un pirla. Disegnavo animali e mostri, frequentavo corsi di danza moderna, in modo da oppormi a quella tendenza che porta un ragazzo verso il calcio, lontano dalla scienza. “Gli sport di squadra sono una merda!”: fu proprio questo il motore della mia scelta. Ascoltavo Michael Jackson e la dance più zarra in cassetta. Due giorni la settimana ballavo in palestra, poi, a casa, provavo passi nella mia cameretta. L’insegnante di danza era efebico. Io vestivo con la tuta da ginnastica e le espadrilles, ed ero supremo e patetico; e sopratutto l’unico maschio in mezzo a ragazze che ballano, che si cambiano nella stanza di fianco, che mi fanno pat pat sulla testa: uno smacco per coloro che dopo gli allenamenti di calcio passavano il tempo a constatare reciprocamente le misure del loro cazzo. Purtroppo, è considerato più eterosessuale guardarsi tra maschi per determinare chi sta nel club dell’età puberale, piuttosto che farsi circondare da ragazzine vestite attillate che fanno discorsi sulle loro relazioni presenti e passate.
Per questa discrepanza la situazione cominciò a pesare: le categorie create dagli adulti mandano sempre tutto a puttane. Una ragazza più grande in palestra mi interpella con in mano una cartella e una penna: vuole farmi un test per verificare se inizio a manifestare qualche tendenza omosessuale. Fu quella la prima volta che ebbi a che fare con la scienza dozzinale di molte studentesse universitarie iscritte a psicologia. A parte, quando tornavo a casa, fuori dalla palestra mi aspettavano gruppetti di coetanei che mi motteggiavano: facevano il gesto della fellatio, mi chiedevano se mi facessi le seghe, se fossi pazzo. Avrei saputo cosa rispondergli, se le mie scelte fossero state inerenti agli argomenti che questi ragazzi mi sottoponevano, ma di fatto stavo zitto e tiravo dritto. Al tempo i miei genitori non mi avevano ancora spiegato tutto – anzi, niente, a parte la morte – quindi per me esistevano solo i cartoni animati, le merende, le guerre contro gli altri, combattute con armi incomprensibili, eserciti che parlano lingue diverse, con genitori come generali che estinguono i moti naturali, determinano le cause perse, facendo sì che battaglioni di figli si fronteggino, si sparino addosso reciprocamente perché non riescono a capire la lingua con cui l’avversario dice “mi arrendo Siamo amici?”. Altrimenti, io in primis avrei smesso di sparare subito. A tredici anni, ho capito che la mia voglia di muovermi a tempo, di partecipare in modo dinamico all’ascolto, si concretizzava nella batteria. Se ci fossero dei metodi per incanalare le propensioni di un ragazzino, avrei iniziato a suonare la batteria a undici anni e non dai sedici in avanti, senza amici batteristi od insegnanti: così adesso sarei super tecnico, farei il turnista, il purista del metal o delle salse merengue, farei cover hard rock invece di queste arringhe, berrei whiskey invece di succo di frutta ed aringhe, parlerei di lavoro invece di Omote Renge e Sharingan. Potrei fare invidia a tutti quei miei coetanei con la macchina un po’ costosa, che hanno imparato la sessualità dalle spiegazioni del fratello più grande, che dicono di saperne sulle donne perché ne hanno avute tante. È come dire di saperne di meccanica avendo posseduto questa e quest’altra macchina, ma non avendone mai smontato un pezzo. Vi basta vedere che sto zitto e tiro dritto per essere convinto? Posso distruggerti in un attimo, facendo una piroetta in pubblico!